C’è stato un momento, tra il 1993 e il 1996, in cui Atari credette davvero di poter riconquistare il trono delle console. La sua arma segreta si chiamava Jaguar, una macchina che prometteva di rivoluzionare il mercato grazie alla sua architettura a 64 bit, lasciando indietro Sega e Nintendo. Ma, come spesso accade nel retrogaming, tra ambizioni smisurate e disastri industriali, il “felino” di Atari si rivelò più un gattino smarrito che un predatore. Eppure, la sua storia resta una delle più affascinanti e tragiche dell’industria videoludica.
Gli anni bui di Atari e la nascita di un sogno
Per comprendere le origini del Jaguar bisogna tornare al 1988. Dopo aver dominato gli anni Ottanta con il leggendario Atari 2600, la compagnia era ormai ai margini di un mercato dominato dal Nintendo Entertainment System, che deteneva l’80% delle vendite. I tentativi di reazione – il 7800, l’XEGS e il 2600 Jr. – si rivelarono fallimentari, garantendo ad Atari appena il 12% del mercato.
A quel punto serviva una svolta. L’azienda decise di sfruttare la tecnologia del computer Atari ST come base per una nuova console. Tuttavia, non disponeva più delle risorse interne per un progetto tanto ambizioso. Fu così che entrò in scena la Flare Technology, piccola compagnia britannica fondata da tre ex ingegneri della Sinclair Research: Martin Brennan, John Mathieson e Ben Cheese.
Atari rimase colpita dal loro lavoro e finanziò due progetti in parallelo. Il primo, nome in codice Panther, doveva essere una console a 32 bit destinata a sfidare Super Nintendo e Mega Drive. Il secondo, chiamato Jaguar dal CEO Sam Tramiel, puntava ancora più in alto: una piattaforma a 64 bit che anticipasse la prossima generazione di console.
Il Panther che non fu mai
Il Panther nacque sotto grandi aspettative. Avrebbe dovuto mostrare fino a 8192 colori e offrire prestazioni 2D superiori alla concorrenza. Ma i ritardi si accumularono, complici le difficoltà economiche di Atari e gli investimenti nel portatile Lynx.
Nel 1990, il progetto era ancora lontano dall’essere pronto e già sembrava superato. Sega, NEC e Nintendo stavano dominando il mercato, e Atari rischiava di arrivare tardi con una tecnologia già vecchia. Così, nel 1991, l’azienda decise di cancellare il Panther e concentrare tutte le risorse sul Jaguar, saltando direttamente alla generazione successiva.
L’architettura: genio o follia?
Il cuore del Jaguar era una complessa architettura multi-processore. Due chip custom, Tom e Jerry, gestivano rispettivamente grafica e audio, mentre un Motorola 68000 a 16 bit fungeva da processore di supporto.
L’idea di Flare Technology era brillante: distribuire i compiti tra processori specializzati per ottenere potenza superiore. Il Jaguar vantava un bus dati a 64 bit, una palette di 16 milioni di colori e capacità grafiche che sulla carta superavano ogni console a 16 bit. Tuttavia, nella pratica, il sistema era estremamente difficile da programmare.
Molti sviluppatori, abituati al familiare 68000, preferirono sfruttarlo come processore principale, ignorando Tom e Jerry. Il risultato fu una serie di giochi che sembravano semplici evoluzioni dei titoli a 16 bit. Inoltre, la console soffriva di bug hardware mai corretti e Atari non fornì strumenti di sviluppo adeguati per gestire il lavoro parallelo dei chip. Perfino l’accensione era curiosa: il Jaguar restava spento se non veniva inserita una cartuccia.
“Do the Math”: il marketing aggressivo
Il debutto ufficiale del Jaguar avvenne nel novembre 1993 con una presentazione spettacolare a New York. Atari lanciò una campagna pubblicitaria martellante con lo slogan “Do the Math” (“Fate i conti”): 64 bit contro 16 bit, una sfida diretta alla concorrenza.
La console, venduta a 249,99 dollari, arrivò inizialmente solo a New York e San Francisco, dove le prime 30.000 unità andarono esaurite rapidamente. Atari parlò di oltre due milioni di preordini in Europa e di un grande ritorno del marchio. Il gioco incluso nella confezione era Cybermorph, un titolo 3D che mostrava le capacità del sistema.
I primi risultati furono incoraggianti, con vendite superiori a quelle del costoso 3DO di Panasonic. Ma il successo durò poco. I giocatori lamentavano la mancanza di titoli di richiamo e la sensazione che le promesse tecniche non fossero state mantenute.
La controversia dei 64 bit
La domanda iniziò a circolare presto: il Jaguar era davvero una console a 64 bit? Gli appassionati si divisero. Tecnicamente, il bus dati principale operava a 64 bit, ma molti elementi del sistema restavano a 32. Per alcuni sviluppatori la definizione era corretta, per altri si trattava di un compromesso.
Atari rispose con arroganza, e Sam Tramiel arrivò a dichiarare che il Jaguar era “più potente del Sega Saturn e quasi alla pari con la PlayStation”. Promise persino di denunciare Sony se avesse venduto la sua console sotto i 500 dollari. Quando la PlayStation uscì a 299 dollari, naturalmente non successe nulla.
La libreria di giochi: tra capolavori e delusioni
Il tallone d’Achille del Jaguar fu la sua scarsa libreria di giochi: appena 50 titoli su cartuccia e 13 su CD-ROM. Molti erano conversioni poco ispirate da console a 16 bit o da PC, e solo pochi riuscirono a sfruttare davvero l’hardware.
Tra le eccezioni brillano alcune gemme. Alien vs. Predator, sviluppato da Rebellion, divenne la killer app della console con oltre 50.000 copie vendute: tre campagne distinte, atmosfere claustrofobiche e una tensione palpabile.
Altro titolo simbolo fu Tempest 2000, capolavoro di Jeff Minter, che reinventò lo storico arcade con grafica psichedelica e colonna sonora techno. Vinse numerosi premi e divenne il manifesto di ciò che il Jaguar avrebbe potuto essere.
Da ricordare anche Rayman, che debuttò proprio su Jaguar prima di approdare su PlayStation, Doom in una versione fluida e spettacolare, e i due Iron Soldier, pionieri degli action 3D su console. Ma senza il supporto delle grandi software house, Atari non poté competere con i giganti del settore.
Il Jaguar CD e le periferiche fantasma
Nel 1995 arrivò il Jaguar CD, lettore ottico prodotto da Philips che avrebbe dovuto rilanciare la console. Uscì però troppo tardi: l’11 settembre 1995, quando Saturn e PlayStation avevano già preso il volo. Solo 20.000 unità furono vendute.
Il design ricordava un tempio azteco e offriva una capacità di 790 MB per disco, ma i giochi ufficiali furono appena tredici. Altre periferiche – come il modem vocale o un visore VR – vennero annunciate e mai realizzate. Solo il JagLink, per collegare due console, vide effettivamente la luce, ma con pochissimo supporto software.
Il crollo e la fine di un’era
Nel 1995 la situazione precipitò. Saturn e PlayStation offrirono potenza, catalogo e supporto di terze parti. Il Jaguar non riuscì a tenere il passo. Atari chiuse l’anno con vendite di appena 125.000 unità e centomila console invendute nei magazzini.
Nel 1996 arrivò la fine: Atari si fuse con JT Storage, abbandonando definitivamente il mercato console. Due anni dopo, il marchio venne ceduto a Hasbro Interactive, sancendo la fine della storica Atari Corporation. In totale, si stima che siano state vendute tra 150.000 e 250.000 Jaguar, una sconfitta epocale per un progetto nato con ambizioni rivoluzionarie.
La rinascita nella scena homebrew
La storia, però, non finisce lì. Nel 1999 Hasbro dichiarò il Jaguar piattaforma open, rilasciando i codici di sviluppo che divennero di dominio pubblico. Questo gesto riaccese l’interesse degli appassionati: dagli anni 2000 in poi sono usciti oltre 40 nuovi giochi homebrew, molti dei quali completamenti di progetti cancellati.
Piccole software house come Telegames e Songbird Productions hanno contribuito a far rivivere il sistema, mentre il Jaguar CD è diventato un rarissimo oggetto da collezione. Curiosamente, lo stampo della scocca della console fu in seguito riutilizzato da un’azienda di strumenti medici e, anni dopo, da un progetto di retro-console mai concretizzato.
L’eredità del felino
Guardando oggi al Jaguar, emerge una lezione chiara: la potenza tecnica non basta. Servono giochi, sviluppatori motivati e una strategia coerente. Il Jaguar possedeva un potenziale reale – come dimostrano Alien vs. Predator e Tempest 2000 – ma fu vittima della propria complessità e di una gestione disastrosa.
Per i nostalgici, resta l’ultimo, disperato ruggito di un gigante del passato. Per i nuovi appassionati, una finestra su un’epoca in cui le console osavano sperimentare, rischiando tutto pur di innovare.
Il ruggito del Jaguar si è spento nel 1996, ma la sua eco continua a vibrare nel cuore dei retrogamer. È il simbolo di un’industria che, anche nei suoi fallimenti più clamorosi, sa ancora raccontare storie straordinarie.