MS-DOS: Sua Maestà!
MS-DOS è stato molto più di un semplice sistema operativo. Tra il 1982 e la metà degli anni Novanta, questo ambiente testuale ha ospitato migliaia di videogiochi che hanno contribuito a plasmare l’industria moderna. Chi c’era ricorda le ore passate a ritoccare i file CONFIG.SYS e AUTOEXEC.BAT per liberare memoria, le installazioni da montagne di floppy disk e l’emozione delle prime animazioni in VGA a 256 colori. Per le nuove generazioni, riscoprire questi titoli significa andare alle radici di molti generi che oggi diamo per scontati.
Sviluppato da Microsoft e commercializzato dal 1982, MS-DOS accompagnò l’ascesa dei PC IBM e compatibili anche in ambito videoludico. I suoi limiti tecnici, oggi quasi inimmaginabili, spinsero gli sviluppatori a soluzioni ingegnose che spesso sfociarono in vere innovazioni. La distribuzione shareware, che permetteva di provare gratuitamente il primo episodio scaricato dalle BBS e acquistare il gioco completo via posta, rivoluzionò il modello di business dell’epoca.
Gli sparatutto in prima persona: la nascita di un genere
Wolfenstein 3D segna una data chiave nella storia del videogioco. Il 5 maggio 1992, quando id Software distribuì il primo episodio tramite Apogee Software, pochi immaginavano che quel titolo avrebbe definito un intero genere. Sviluppato da John Carmack, John Romero, Tom Hall e Adrian Carmack, Wolfenstein 3D sfruttava un motore pseudo-3D basato sul ray casting, capace di creare ambienti tridimensionali anche su processori 80286.
Il giocatore vestiva i panni del capitano William Joseph Blazkowicz, soldato americano prigioniero nel castello di Wolfenstein durante la Seconda Guerra Mondiale. La struttura, semplice ma efficace, prevedeva sei episodi da nove livelli ciascuno più uno segreto, con centinaia di nemici nazisti e boss memorabili come Hans Grosse. L’interfaccia mostrava in basso il volto del protagonista che si insanguinava man mano che calavano i punti vita, un dettaglio destinato a essere ripreso da molti titoli successivi.
Wolfenstein 3D rese id Software un nome di primo piano. Il successo commerciale fu immediato: il modello shareware e la diffusione via BBS crearono un passaparola fulminante, fino a trasformarlo in uno dei file più scaricati del momento. Chi ha vissuto quell’epoca ricorda le nottate con modem a 14.400 bps, un’attesa che rendeva ancora più intenso il primo avvio del gioco.
Nell’autunno del 1992, forte del successo di Wolfenstein 3D, id Software si trasferì a Mesquite, in Texas, e iniziò a lavorare a quello che sarebbe diventato il vero punto di svolta del genere: Doom. Pubblicato nel dicembre 1993, non era solo un’evoluzione del precedente, ma un salto tecnologico e concettuale.
John Carmack sviluppò un nuovo motore grafico, abbandonando il ray casting a favore del Binary Space Partitioning. Questo rese possibili ambienti con diverse altezze, texture su tutte le superfici, angoli non ortogonali e giochi di luce dinamici. Il risultato, per l’epoca, era impressionante e richiedeva macchine più potenti.
Ma Doom non era solo tecnica. Il level design, ispirato all’atmosfera claustrofobica di Aliens e all’horror splatter de La Casa 2 di Sam Raimi, costruiva un’esperienza unica. Demoni grotteschi, fucile a pompa, motosega, ambientazione sulla luna marziana Phobos e colonna sonora heavy metal firmata Bobby Prince creavano un mix potentissimo.
Doom introdusse anche il multiplayer cooperativo e la modalità deathmatch, termine coniato proprio per il gioco e poi entrato stabilmente nel vocabolario videoludico. Gli scontri via LAN o modem anticiparono fenomeni che avrebbero dominato gli anni successivi.
Strategia tattica: gestione e combattimento
Nel 1994, Julian Gollop e Mythos Games pubblicarono tramite MicroProse quello che ancora oggi molti considerano il miglior strategico a turni di sempre: UFO: Enemy Unknown, noto negli Stati Uniti come X-COM: UFO Defense. Nato come seguito ideale di Laser Squad, il progetto si ampliò notevolmente grazie al supporto di MicroProse, fino a diventare qualcosa di completamente nuovo.
Il gioco univa due livelli di gameplay strettamente collegati. Nella schermata Geoscape, una rappresentazione tridimensionale della Terra, il giocatore gestiva l’organizzazione X-COM: costruzione di basi in punti strategici, ricerca di tecnologie analizzando artefatti alieni, produzione di equipaggiamento, reclutamento del personale e controllo del budget. Le nazioni finanziatrici potevano ridurre i contributi o addirittura passare dalla parte degli alieni se non venivano adeguatamente protette.
Il secondo livello, il Battlescape, costituiva il cuore dell’esperienza. Quando un UFO veniva abbattuto o iniziava un attacco terroristico, il gioco passava al combattimento tattico a turni in visuale isometrica. Ogni soldato disponeva di un numero di Time Units da spendere per ogni azione: muoversi, mirare, sparare, aprire porte, lanciare granate. La linea di vista realistica e il fuoco di reazione, che permetteva ai nemici di colpire durante il tuo turno se restavi esposto, rendevano ogni passo potenzialmente fatale.
Le mappe, generate proceduralmente, erano completamente distruttibili. Si potevano far crollare edifici per eliminare cecchini alieni, sfondare muri per aggirare le difese o illuminare aree buie con razzi. L’atmosfera era tesa: esplorare una fattoria nella notte, con il cono di luce delle torce come unico riferimento e la costante possibilità di imbattersi in un Chryssalid dietro l’angolo, era davvero inquietante.
Il sistema di crescita dei soldati introduceva una forte componente RPG. Le statistiche miglioravano con l’esperienza, creando veterani preziosi in ruoli specifici. Perdere un soldato esperto dopo decine di missioni aveva un impatto emotivo evidente e rendeva ogni decisione ancora più ponderata. Catturare alieni vivi per interrogarli e sbloccare nuove ricerche aggiungeva un ulteriore strato strategico.
X-COM non era semplicemente difficile: era spietato. Un singolo errore poteva compromettere l’intera squadra. Le missioni di terrore nelle città, con i civili nel mezzo del fuoco incrociato, richiedevano un difficile equilibrio tra rapidità e prudenza. Gli assalti alle basi aliene si trasformavano in maratone tattiche di ore. Quando finalmente si sbloccava l’accesso alla base principale su Marte, si aveva davvero la sensazione di aver condotto una lunga campagna globale.
Il successo fu immediato, sia di critica che di pubblico. IGN lo proclamò miglior gioco PC di tutti i tempi nel 2000 e nel 2007, mentre Computer Gaming World gli assegnò il Game of the Year. La sua influenza si ritrova in decine di titoli successivi, dal reboot XCOM: Enemy Unknown di Firaxis a progetti “eredi spirituali” come Phoenix Point dello stesso Gollop.
Le avventure grafiche: narrativa e puzzle
Durante l’era MS-DOS, LucasArts firmò alcune delle avventure grafiche più importanti di sempre. Indiana Jones and the Fate of Atlantis, pubblicato nel 1992, è uno degli esempi migliori del genere al suo apice. A differenza del precedente gioco tratto da L’Ultima Crociata, qui la storia era completamente originale e ambientata nel 1939.
Basato sul motore SCUMM e sulla classica interfaccia punta e clicca, il gioco vedeva Indiana Jones e la psicologa Sophia Hapgood sulle tracce di Atlantide, in una corsa contro i nazisti decisi a sfruttare l’Orichalcum, leggendario metallo atlantideo, per scopi bellici. La sceneggiatura era curatissima: dialoghi brillanti, personaggi memorabili e un equilibrio riuscito tra azione, mistero archeologico e humour.
Un tratto distintivo era la possibilità di scegliere tra tre percorsi diversi a metà avventura: il percorso Wits, incentrato su enigmi e ingegno; il percorso Fists, più votato all’azione; e il percorso Team, con Indy e Sophia sempre in coppia. Una scelta che aumentava sensibilmente la rigiocabilità.
Impossibile non citare The Secret of Monkey Island e Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge. Questi classici di Ron Gilbert ridefinirono l’avventura comica, con un protagonista improbabile, Guybrush Threepwood, deciso a diventare pirata nei Caraibi. Umorismo surreale, duelli di insulti al posto delle spade, puzzle logici ma mai punitivi e musiche indimenticabili grazie al sistema iMUSE rendevano ogni schermata un piccolo concentrato di personalità.
Giochi di ruolo: mondi da esplorare
La serie Ultima di Richard Garriott è una delle colonne portanti dei giochi di ruolo su computer. Ultima VII: The Black Gate, pubblicato nel 1992, è spesso indicato come il vertice della saga. Ambientato nel regno di Britannia, il gioco metteva il giocatore nei panni dell’Avatar, chiamato a indagare su un omicidio rituale mentre una misteriosa organizzazione religiosa, la Fellowship, acquisiva potere.
Ciò che rendeva Ultima VII straordinario era il livello di interazione con il mondo di gioco. Si poteva produrre il pane impastando farina e acqua, cuocendolo in forno e consumandolo. Ogni oggetto poteva essere spostato o esaminato, i cassetti aperti, gli armadi ispezionati, i libri letti per carpire indizi reali. I personaggi non giocanti seguivano routine quotidiane: lavoro, pasti, sonno. Tutto contribuiva a creare un mondo sorprendentemente vivo e coerente.
Il sistema di combattimento in tempo reale rappresentava una novità per la serie, così come la gestione di un intero gruppo di compagni, ognuno con carattere e obiettivi propri. La libertà esplorativa era quasi totale: dopo le prime ore, l’intero continente di Britannia diventava accessibile senza barriere artificiali.
Simulazioni e gestione: costruire mondi
SimCity 2000, sviluppato da Maxis e pubblicato nel 1994, portò il concetto di city builder a un nuovo livello. Rispetto al primo SimCity, introduceva rilievi collinari, metropolitana, reti idriche e fognarie separate, zone a densità differenziata e una quantità enorme di opzioni per modellare la propria città.
La sfida non era solo far crescere gli abitanti, ma bilanciare residenziale, commerciale e industriale, ridurre criminalità e inquinamento, garantire acqua ed energia, costruire scuole e ospedali, gestire il traffico con strade, autostrade e trasporti pubblici. Ogni scelta aveva conseguenze di lungo periodo, e vedere un piccolo centro trasformarsi in metropoli nel corso di ore di gioco era estremamente gratificante.
Il sistema di advisor informava costantemente sulle necessità della città, mentre i giornali simulati commentavano le decisioni del sindaco-giocatore e gli eventi casuali, dai disastri naturali alle proteste, introducendo un tocco di ironia.
Strategia in tempo reale: la nascita del genere
Dune II: The Building of a Dynasty, pubblicato da Westwood Studios nel 1992, è considerato il titolo che ha definito le regole del real time strategy. Basato sull’universo di Frank Herbert, permetteva di controllare una delle tre casate in lotta per Arrakis, il pianeta deserto da cui si estrae la spezia.
Dune II introdusse elementi destinati a diventare standard: raccolta risorse, costruzione di strutture e unità, albero tecnologico da sbloccare, combattimento in tempo reale. L’interfaccia point-and-click, la mini mappa per orientarsi rapidamente e la distinzione tra unità di terra e veicoli posero le basi per tutti gli RTS successivi.
Il gioco richiedeva una gestione costante: espansione della base, difesa dei raccoglitori di spezia dai vermi giganti, creazione di eserciti bilanciati tra fanteria, mezzi leggeri e pesanti, pianificazione degli assalti e difesa delle infrastrutture. La pressione continua e la necessità di pensare contemporaneamente a breve e lungo termine rendevano l’esperienza estremamente coinvolgente.
Command & Conquer, ancora di Westwood e datato 1995, raffinò queste meccaniche introducendo filmati con attori in carne e ossa, risorse multiple e una narrazione incentrata sul conflitto tra GDI e Brotherhood of Nod. Command & Conquer: Red Alert (1996) spostò poi l’azione in una linea temporale alternativa, con un confronto diretto tra Stati Uniti e Unione Sovietica in chiave fantapolitica.
Piattaforme e azione: fluidità e precisione
Prince of Persia, creato da Jordan Mechner e pubblicato nel 1990, rivoluzionò il platform grazie a animazioni insolitamente fluide. Mechner utilizzò la rotoscopia, filmando il fratello mentre eseguiva le acrobazie e ricalcando i movimenti frame per frame. Il risultato fu un protagonista che correva, saltava, si arrampicava e combatteva con una naturalezza mai vista prima.
Il gameplay univa piattaforme millimetriche, duelli alla spada, puzzle ambientali e una costante pressione temporale: il giocatore aveva sessanta minuti reali per completare i livelli, salvare la principessa e sconfiggere il vizir Jaffar. Ogni errore costava tempo e preziosi punti vita, rendendo fondamentale gestire con attenzione ogni avanzamento.
La struttura dei livelli richiedeva memorizzazione e precisione. Alcuni salti andavano effettuati da posizioni esatte, certe porte si aprivano solo azionando piastre nascoste, altri passaggi si intuivano osservando riflessi e dettagli grafici. La difficoltà era elevata ma raramente ingiusta, e arrivare ai titoli di coda rappresentava un traguardo di cui vantarsi.
L’eredità di MS-DOS
Quelli citati sono solo alcuni tra i tanti giochi nati su DOS, ma bastano a rendere l’idea della varietà e della forza innovativa di quell’epoca. Sparatutto in prima persona, RTS, avventure grafiche, GdR e tanti altri generi moderni devono moltissimo ai pionieri che lavorarono entro i vincoli di MS-DOS.
Oggi, grazie a progetti come DOSBox e alle raccolte disponibili su piattaforme come GOG e Steam, questi classici restano giocabili. L’Internet Archive ospita migliaia di titoli DOS avviabili direttamente dal browser, mentre il progetto eXoDOS ha catalogato oltre settemila giochi con configurazioni pronte all’uso.
Per chi ha vissuto quegli anni, tornare a questi titoli significa riaprire un cassetto pieno di ricordi. Per chi li scopre adesso, rappresentano una lezione di game design: quando le risorse erano limitate, a fare la differenza erano idee solide, gameplay ben costruito e creatività. MS-DOS non è stato solo un sistema operativo, ma il palcoscenico su cui è nata l’industria videoludica come la conosciamo oggi.