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Game Gear: quando SEGA osò troppo e ci regalò un sogno a colori

Il 6 ottobre 1990 nei negozi giapponesi arrivò una console destinata a cambiare per sempre l’idea di videogioco portatile. Il SEGA Game Gear nasceva con un obiettivo preciso: sfidare il dominio del Game Boy di Nintendo e dimostrare che giocare in mobilità poteva significare molto più di quattro tonalità di verde su uno schermo monocromatico.

Project Mercury: l’ambizione diventa realtà

Sviluppato con il nome in codice Project Mercury, il Game Gear rappresentava la risposta diretta e aggressiva di SEGA al successo di Nintendo nel settore delle console portatili. La filosofia era chiara: se il Game Boy puntava su semplicità e lunga autonomia, SEGA avrebbe puntato tutto su potenza e spettacolo visivo.

Il cuore della macchina era un processore Zilog Z80 a 3,6 MHz – un progetto nato dal genio italiano di Federico Faggin, vicentino e pioniere della microelettronica.
L’hardware era sostanzialmente una versione portatile del Master System, con 8 KB di RAM principale e 16 KB di RAM video. Ma il vero punto di forza era lo schermo: un display LCD retroilluminato a colori da 3,2 pollici, capace di mostrare 32 colori simultanei su una palette di 4096. Una meraviglia tecnologica che faceva sembrare il Game Boy un giocattolo del decennio precedente.

L’arrivo in Italia: Jerry Calà, Walter Zenga e la magia di Giochi Preziosi

Nel 1991 il Game Gear arrivò in Europa, trovando in Giochi Preziosi un partner ideale per la distribuzione italiana. L’azienda milanese investì massicciamente nella promozione, coinvolgendo personaggi noti del mondo dello spettacolo e dello sport.

Indimenticabili gli spot televisivi con Jerry Calà, che con tono entusiasta proclamava “Ocio però, sono Giochi Preziosi!”, oppure Walter Zenga, che mostrava l’accessorio più sorprendente mai visto: il TV Tuner, un dispositivo che trasformava la console in una piccola TV a colori con antenna telescopica.
Completavano il team di testimonial Roberto Mancini e Gigi Lentini, in una campagna pubblicitaria diventata iconica per chi visse quell’epoca.

Il prezzo di lancio italiano era di circa 350.000 lire, quasi 100.000 in più rispetto al Game Boy, ma in cambio prometteva un’esperienza tecnologica di livello superiore.

Il TV Tuner: l’accessorio dei sogni (e degli incubi)

Tra gli accessori più celebri e discussi del Game Gear c’era proprio il TV Tuner, simbolo perfetto della visione audace di SEGA. Inserito nello slot delle cartucce, permetteva di trasformare la console in una piccola televisione portatile da 3 pollici con sintonizzatore analogico e ingressi audio/video.

Un’idea affascinante, ma non priva di limiti: il dispositivo consumava energia a ritmi impressionanti, la ricezione era instabile e l’immagine tutt’altro che perfetta. Eppure, possederlo significava avere tra le mani un pezzo di futuro, qualcosa che nessun’altra console poteva offrire.

La guerra delle pile: il tallone d’Achille

Il vero nemico del Game Gear non era il Game Boy, ma le pile stilo.
La console richiedeva sei batterie AA, che sulla carta garantivano 5-6 ore di gioco, ma nella pratica spesso non superavano le 2-3 ore, specialmente con titoli più impegnativi o con la luminosità al massimo.
I possessori del Game Boy, con la sua autonomia di oltre 30 ore, osservavano con ironia i “geargearisti” costretti a portarsi dietro scorte di batterie o cercare costantemente una presa di corrente.

Chi ha vissuto quel periodo ricorda bene i viaggi in auto con pacchi di pile nello zaino, i battery pack esterni che rendevano la console pesantissima e la paura crescente quando lo schermo cominciava a sbiadire nel momento meno opportuno.

I gioielli software: quando la qualità batteva la quantità

Nonostante una libreria più limitata rispetto al Game Boy – circa 350 titoli contro oltre un migliaio del rivale – il Game Gear offriva giochi di altissimo livello.
Sonic the Hedgehog e il suo seguito non erano semplici conversioni, ma avventure create appositamente per la console portatile.
Capolavori come Shinobi II: The Silent Fury, Streets of Rage 2, Gunstar Heroes e Wonder Boy III: The Dragon’s Trap dimostravano la potenza dell’hardware SEGA.

Il puzzle game Columns, considerato la risposta di SEGA a Tetris, divenne un successo mondiale, mentre conversioni come OutRun impressionavano per la resa tecnica sul piccolo schermo.
Tra le esclusive più apprezzate spiccavano Defenders of Oasis, Power Strike 2 e la trilogia Disney con protagonista Topolino, con Castle of Illusion e Land of Illusion, ancora oggi ricordati come alcuni dei migliori platform dell’epoca.

Il declino e l’eredità

Nel 1997, dopo circa 11 milioni di unità vendute (contro i 118 milioni del Game Boy), SEGA cessò la produzione del Game Gear.
I limiti erano evidenti: un’autonomia ridotta, un prezzo elevato e alcuni difetti di progettazione, come i condensatori difettosi che nel tempo compromettevano audio e schermo.

Eppure, definirlo un fallimento sarebbe ingiusto. Il Game Gear fu il simbolo di un’epoca in cui SEGA osava dove gli altri non arrivavano, incarnando perfettamente lo spirito del motto “Sega does what Nintendon’t”.
Era la console di chi cercava il massimo della tecnologia, anche a costo di qualche sacrificio. Due ore di gioco a colori valevano più di trenta in bianco e nero.

Un amore che non muore

Oggi, nel 2025, il Game Gear è diventato un oggetto di culto. I collezionisti lo cercano, i modder lo aggiornano con batterie al litio ricaricabili via USB-C capaci di garantire fino a 13 ore di autonomia, e gli appassionati sostituiscono i condensatori per riportarlo in vita.
Nel 2020 SEGA ha persino lanciato il Game Gear Micro, una versione in miniatura creata per celebrare il 30° anniversario, più gadget nostalgico che console vera e propria.

Il Game Gear rappresenta un periodo in cui le aziende non avevano paura di osare, in cui la tecnologia era sinonimo di meraviglia e in cui sei pile stilo sembravano un prezzo accettabile per avere Sonic a colori in tasca.
Era esagerato, costoso, imperfetto. Ma anche incredibilmente affascinante.

Per chi ha vissuto quegli anni, il Game Gear non è solo una console: è un ricordo vivido di pomeriggi passati a spremere fino all’ultimo volt di energia, di viaggi con zaini pieni di pile e di spot pubblicitari con Jerry Calà che ancora oggi strappano un sorriso nostalgico.

Il Game Gear non vinse la guerra delle console portatili, ma conquistò qualcosa di più importante: i cuori di una generazione che non voleva accontentarsi. E, forse, quella fu la sua vittoria più grande.

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